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  21 marzo , 2009       piero.devita       Arte   
Libri- Geometrie dell'inganno di Gallo
Pierino Gallo
Geometrie dell’inganno
(ovvero i soavi licor e i succhi amari)

 






A Francesca Rizzuto,
per il suo essere
musa,
sorella,
amica.


Ascosi ha gli occhi
da tenue reticella,
sottile inganno,
a dileguar velami
di falso bianco
e di candor sospetto
piano si reca
nella missione il canto.
Come se dell’incanto
scioglier potesse
il complicato enigma.



Prefazione

Se volessimo risalire all’antefatto genetico di queste Geometrie dell’inganno di Pierino Gallo, dovremmo necessariamente addentrarci in un’intricata ragnatela di rapporti, convergenze e, perché no, anche divergenze fra tre realtà che si fondono, autonome e indipendenti, nell’essenza e nella sostanza di un percorso poetico già ben delineato.
La prima realtà è quella del poeta. Egli ha bisogno, come direbbe Keats, di “un ricco coinvolgimento” che gli riveli all’inizio ben più di quanto gli sia effettivamente noto. E glielo riveli come da un oscuro impulso dove si percepisce con chiarezza non la poesia ma ciò che viene prima della poesia, “l’aura – suggerirebbe Zolla - che risulta dal convergere dei significati sottintesi o suggeriti e dal gioco dei contesti.”
La seconda realtà è quella di una forte vicinanza del poeta al mondo dell’arte. Non a caso il libro è dedicato a Francesca Rizzuto, una presenza importante nel mondo dell’arte contemporanea calabrese e non soltanto calabrese. Molte delle suggestioni che si respirano in poesie come “Il bugiardo”, “Visito spesso” Pierino Gallo le ha attinte nelle sue visite nell’atelier della Rizzuto. Non solo. Lo stesso richiamo a De Chirico nella poesia “Le gobbe della luna”, a Klimt in “Splende come d’avorio” rafforzano questa sua vicinanza.
La terza realtà evidenzia il coinvolgimento assoluto di Pierino Gallo nel Libro che accoglie tutti i libri della grande poesia e della letteratura. La prova evidente è nel sottotitolo, ovvero i soavi licor e i succhi amari, versi tratti da La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso ( Così all’egro fanciul porgiamo aspersi/Di soavi licor gli orli del vaso:/ Succhi amari, ingannato, intanto ei beve/E dall’inganno suo vita riceve.) E poi il richiamo nel testo a Montale, Neruda, Edgar Allan Poe…
Premesso ciò, non è che poi risulti agevole la lettura di questo libro, perché Pierino Gallo ama mischiare i generi rendendo il percorso poetico accattivante ma nello stesso tempo costringe il lettore alla massima attenzione. D’altra parte come un’espressione algebrica implica in sé tutto il procedimento della sua derivazione, così le poesie di Gallo si possono leggere come un processo di algebrizzazione in cui vengono formalizzate le necessità del poeta di seguire il disegno di una coerenza interna che comunque si apra alla molteplicità della vita e del mondo, al suo quotidiano offrirsi a materia di esperienza che sappia trovare nel suo accadere la scintilla della rivelazione e del senso. Il risultato è una specie di geometria irregolare solo all’apparenza. Tutto, infatti, è perfettamente gestito. Non vi sono mai cadute o smarrimenti.
Succede allora di incontrare versi come questi: Non lascerò imbrogliarmi/ dall’Avaro,/ né da quel diavolaccio/ di Arlecchino,/ bizzarro incrocio,/ caciaroso e folle,/ di demonio e zotico,/ truffa e florilegio/ di scurrilità. Questi versi si possono tranquillamente collegare ai versi di un’altra poesia: Odio/ il ridere beffardo/ delle maschere,/ ricordano/ i timidi sberleffi/ di un bambino,/ ma sotto celano/ artigli lancinanti. E da qui risalire alle parole che il Jaques di Shakespeare enuncia sullo statuto del buffone: Investitemi del costume d’arlecchino/ Lasciatemi dire la mia, e da parte a parte/ Il sozzo corpo del mondo infetto ripulirò. Non tanto per cercare un collegamento che quasi sicuramente non vi sarà, ma per rafforzare l’idea che c’è una profonda scissione tra il fine della vita interiore e quello della società. Sta proprio qui l’inganno. Ognuno è chiuso nei ruoli che la società gli assegna, indossa la maschera sociale, si disinteressa totalmente di sé per essere adeguato alla sua figura pubblica. Non è diverso dal buffone, insomma. Zolla ci chiarisce molto questo concetto quando scrive che “comica è la vita media e feriale quando creda d’essere il criterio della verità, mentre tempo e spazio già la deridono: le persuasioni dell’oggi capovolgono quelle d’avant’ieri e di tutt’e due si farà beffe il domani, ciò che una genìa adora fa orrore all’altra. Le maniere sconnesse che la commedia mette in scena sono l’immagine di ogni opinione e atto che la meditazione non ha soppesato, di tutte le costumanze che non si sono confrontate col tempo e con lo spazio infiniti.”
Il buffone non ci inganna mai. Ci fa ridere di noi stessi perché tra ciò che fa e ciò che noi siamo non corre differenza. Lui interpreta fedelmente il nostro adeguarci, con tutti i paradossi, alla nostra figura pubblica.
Pierino Gallo nei suoi versi manifesta odio per tutto ciò perché sente sulla sua pelle gli artigli lancinanti di questa verità.
Va notato, infine, che dalla profonda lettura di questa raccolta, molti sono i temi che compaiono, alcuni particolarmente approfonditi, altri, appena accennati. E c’è sempre fra loro un correlarsi, una scelta di tempi che si gioca intorno al movimento di un linguaggio che trattiene senza disperdere le configurazioni al suo interno a riprova di un talento che gravita già in una dimensione propria e autentica.


Bonifacio Vincenzi

 


(RECENSIONE)

 

Il nuovo testo di Piero Gallo

GEOMETRIE, INGANNI E ALTROVE ANCORA

di Piero De Vita
 

1. Dell’uomo e del poeta ovvero l’erranza e l’assenza; non solo nel senso dell’ingannare-ingannarsi ma soprattutto del vagare, del camminare e del “non esserci”. E’ il richiamo di Piero Gallo in questa sua nuova opera.  Il titolo “Geometrie dell’inganno” è l’ottica distintiva da cui si osserva quella condizione dell’umana presenza, vittima della negatività disarmante delle stereotipie e delle forme sociali consolidate. Solo ad una prima lettura il poeta sembra cedere all’abbandono, soccombere all’estreme polarità: la resa alle antiche dicotomìe luce/ombra, presenza/assenza, grigiore/colore, gioia/ dolore che accompagnano l’Attesa.I soavi licor e i succhi amari, emblematico prestito dal grande Tasso, utilizzato nel sottotitolo, ne indicano il percorso a cui il lettore andrà incontro. Ma è solo in apparenza così. E’ una impressione. Nella costruzione e nello sviluppo del testo, semmai, mostra che il poeta non si lascerà trascinare dal tempo/evento e dalle costellazioni del dolore. Al contrario, sarà capace - da abile regista del proprio stato - di gestire con consapevolezza ogni passaggio, ogni contesto, qualsiasi consuetudine. Dunque, per consegnare ( e anche per consumare tutto questo) , Gallo accede ad un corpus lessicale di forte impatto: le maschere, la beffa, l’enigma. Ad esso associa personaggi che, per figura e azione, hanno rappresentato metaforicamente, nella storia della letteratura universale e nell’immaginario, le inibizioni  che destrutturano il vissuto. Il Ciarlatano, il Bugiardo, l’Omertoso, il Buffone,  l’Avaro, l’Adulatore, Arlecchino condensano l’idea di intralcio, di ostacolo. Sono perennemente in scena e fanno scrivere bei versi alle spalle del mondo.In questo itinerario poetico, Piero Gallo affida ad ognuno di loro, per esplicitazione di significato, un ruolo: ne segnala il conflitto, il comportamento, la problematica sofferta.Attraverso una sottile tecnica di avvicinamento,  li riporta in superficie volontariamente ( come si dice “far venire allo scoperto”) per capirne il senso, l’intenzione e neutralizzarli:… e la maschera…e lo scacco che ti giocò il tormento del continuo ingannare..(pag. 39-Arlecchino).La nostra esistenza pubblica, nell’immenso teatro della vita quotidiana, è popolata di queste pluralità. Odio ridere beffardo delle maschere/ Odio ridere beffardo dell’istrione …ricordano i timidi sberleffi di un bambino” . Maschere e poi beffe spingono a negare se stessi per un Altro-essere che non c’è, che non ha alcuna destinazione e che non è nemmeno la nostra proiezione. Dunque, l’enigmatico, che si impadronisce di ogni passo o movimento della nostra scena, è causa di erranze e assenze.Significativi i versi di pag. 32: “ La poesia delle maschere/ ha questo d’incanto: fa scrivere versi,/non sapendo di farlo./ Capovolgimento/ di falso e natura,/di vita e artificio”. Ricordano tanto le intricate storie dei personaggi pirandelliani e la stessa ricerca di “Geometrie”, secondo il mio parere, si muove su questa linea di scandaglio.

  2. La dissoluzione della propria individualità e l’allegoria del tempo ( o dei tempi) danno la misura dell’inganno, la cui capacità plurale fa naufragare qualsiasi progetto e lo sovraespongono alla sofferenza e all’incertezza. L’inganno rovina lo sforzo di ri-ordinare la propria vita. Gli inganni turbano ogni relazionalità, la dimensione delle proprie emozioni, del pianeta sentimento e impediscono di raggiungere mete e affermazioni.Il “piano geometrico degli inganni”, a cui si riferisce il nostro poeta, è un sistema chiuso. La perfezione si dispone come calcolo per equilibri irremovibili, un sistema chiuso che crea materia e condizione per complicanze del ragionare e pre-giudica, qui, la ripresa nell’assenza.
  Scrive Gallo a pag. 42: “I mocassini sulle scale reclamano memorie … aeroplano di carta all’ombra…meglio fingersi impavidi che cucirsi le ali mosse convulse che investono l’oracolo del sommo inganno”. Illusioni e simulazioni non aiutano. Tuttavia né coraggio né spettri sapranno coprire il vuoto lasciato ( vedi anche il rimando a E.A. Poe, a Eiros e Charmion, Monos e Una ). Anche in situazione favorevoli, “l’urne dei poeti, in pieno giorno, vivono degli avanzi della sera”, a dire di quel che resta. Solitario e ramingo va il poeta e l’anello dell’erranza è concepito come catena o come muro  di un labirinto o considerato alla pari di un varco che, viceversa, facilita e non ferma il “viandare circolare”, il ritornare sulla medesima posizione più che verso l’Altrove. L’anello dell’erranza è un maledetto sigillo che ne identifica la condizione e complica la tendenza a liberarsi dalla tela geometrica rifondante nuovi inganni.
 E c’è sempre un muro associato all’assenza, che richiamano vicendevolmente (: “rugosi/ i calcinacci/ sul muro/ ricordano della tua/ mesta assenza”).Uno specchio, forse un punto fermo o una via d’uscita. Strane forme sul muro tracciano la consapevolezza dell’ALTROVE ma se quella creatura sul muro è frutto delle visioni,  ecco riapparire l’enigma, ritorna la paura dell’inganno con… il profilo dell’uomo che si assottiglia  (pag. 27). Felice scelta, intreccio efficace per preparare un nuovo avvento. Sebbene qualcuno abbia chiuso gli occhi in fondo al molo, è il sole che nei porti della continua assenza dislega inafferrabili matasse. Sul frammento, però, si ricostruisce. La via maestra non dava scampo al ciglio del burrone, ogni singolo pensiero reclama ali, angeliche, remote. Panegirico degli anni, fili dell’altalena oltre le ombre, sentieri snelli al ragno tra le fronde.Si fa strada il bambino che sulla pietra più bella scriveva i nomi dell’infanzia , l’urlo della cicala che rimette in marcia, lavorìo di forme su strale consunto e rinato.La ricerca di senso diventa ricerca di se stesso. In questa parte del libro, l’autore, propone un altro blocco lessicale, in positivo: il viandante e l’estrema scelta di restare per sempre bambino, (pag. 26), il cappello scucito del poeta, per diverse esistenze lontano dagli uomini che infine ricorderà d’essere nel mondo (pag. 28), il suono della voce, della pioggia.   Tutte svolte semantiche come l’attesa..ora avanza il mio ardito aspettare…narrerò alla mia voce il segreto rumore dell’eterno, (pag.37)…le corde del liuto suono, nell’ombra le modello dal cuore l’altrove….(pag.29). Questo è il momento in cui Gallo compie lo sforzo di richiamare nel proprio percorso, ( quasi a reclamare soccorso, sostegno, assistenza), testimoni-tutori della grande poesia e arte mondiale attraverso le individuali esperienze:  De Chirico-Klimt,Neruda, Montale, Poe, Verlaine e lo stesso Tasso.  Le prove affrontate chiedono di andare, non importa dove o se hanno il sapore della  confusione. Non importa se ricordano il continuo vagare tra Amore e Morte. L’importante è andarsene, afferma Gallo, riconoscere all’alba il bagliore nascente e andare avanti, così come si è arrivati. “Nessuno si accorge che è più facile amare piuttosto che vivere appena”. Ebbene, la scoperta dell’Amore, così potente e così semplice che libera e sconvolge.
 3. Con questo libro, Piero Gallo arricchisce la sua scrittura poetica, dimostra straordinaria competenza e personalizza un modello stilistico. L’approccio del lettore spesso non è facile in virtù dell’intensità del codice scelto e della polisemia dell’impianto espressivo. Ne ammiro la serietà della proposta letteraria. Il verso è fortemente radicalizzato, interiorizzato, mediato, curato, filtrato. Ogni parola è passata al setaccio. Il lessico è più ricercato e nuovo (  sull’esempio di Montale). Geometrie è un decisivo passo in avanti nell’uso dello strumento linguistico espressivo nell’elaborazione letteraria, nulla è a caso o affidato alla spontaneità dell’ispirazione lirica. Apre e chiude diverse liriche con lo stesso tenore, con la stessa chiave d’avvio. Vi sono testi altamente lirici ( “Inafferrabili matasse” (pag.13)… “ Ti troverò. nascosta tra le brame dell’autunno” (pag. 23)…” Nella bocca dei falchi” (pag. 49)…”E’ rimasto l’odore del vento”(pag.55)…”Portami il girasole” (pag. 59). 
 E’ la poesia dei poeti, quella che fa bene al cuore e alla letteratura. Quella che si affida a noi come voce della pioggia, che scaturisce per natura e cultura ( interessante in questo senso il riferimento al popolo indiano Navajo). In una bellissima e toccante lirica, Gallo ci ricorda che “Nel rumore /di ghiaccio/che sveglia /la terra,/fustigante/bellezza/del vano/sillabare” nasce il volo dell’intrepida poesia, come nel gioco delle raganelle. A conclusione dell’opera, per sottolineare questo meraviglioso rapporto Vita/ Poesia, Gallo  ritorna a Eugenio Montale e al famoso componimento Portami il girasole ch’io lo trapianti. Il fiore giallo montaliano quale emblema, testimonianza o passaggio di percorsi. Scrive ancora: …”Portami il girasole/ che all’Inferno conduce”.  Aggiungo: ma solo per capirlo, …anzi con marmorea volontà di capirlo,  per cercare la salvezza (la pasoliniana salvezza, riferita ne’ Le ceneri di Gramsci) per un altrove irraggiungibile a qualsiasi geometrico inganno.

       PIERO DE VITA

 


 

 

TESTO DELL'OPERA



Inafferrabili matasse
il sole dislega
nei porti
della continua assenza.

Non placa ormai
lo sciorinare
dei rosari1.


1 -Versi apparsi per la prima volta in Poesia, Mensile Internazionale di Cultura Poetica, Anno XXI, Novembre 2008, N. 232.


“Pablo Neruda
è il padre degli amanti,
Vivian Lamarque
patteggia con i gatti” –
mi ripetevi
quando
eri da sola.

Quell’araba fenice
è cancellata
dal clamore del tempo.

Rugosi
i calcinacci
sul muro
ricordano della tua
mesta assenza.

Persi
l’abbraccio,
Ermione,
che ti portava
in vita.

Odio
il ridere beffardo
delle maschere,
ricordano
i timidi sberleffi
di un bambino,
ma sotto celano
artigli lancinanti.

Solo la retta
linea delle tue ciglia
sembra evasa dal vento.

Accanto al muro
sotto la tua finestra,
coglievo
i petali
di rosa
spazzati
al mattino
giù dal tuo balcone.

Odio
il ridere beffardo
dell’istrione,
ricorda
per le vie del vero
che pur
bisogna vivere…


Il Bugiardo
ha stinto
ormai la voce
gridando sul mio petto.

La bianca reticella
sui suoi occhi
è già calata in basso
e si rivela
la sua benemerenza.

Sorride indenne
e fiero
l’Omertoso
mentre
grosse
catene
ora riallacciano
il suo Verbo.

Perché
il Mistero
deve sempre
nascondersi
alle brame?



Le gobbe della luna
non parlano
al buio del tramonto.

Semmai cercano amanti
O Muse inquietanti
alla De Chirico.

Il panegirico
degli anni
ha rotto le sue giostre
nel cortile.

Riallaccio
i fili della mia altalena
sapendo
che ancora
stanotte
tu ne farai sartiame.

Dicono che il sonetto
sia la poesia dell’eros,
in versi cadenzati ed eleganti
passa sotto le penne degli amanti,
certo d’offrire insieme
e i soavi licor e i succhi amari.
Ma se restate ignari
nell’affanno
delle dinoccolate
geometrie dell’inganno
l’alta felicità
tutta vien meno,
come quando da piccoli
le ombre
ci sbarravano il cammino
degli amori.

Hai ricomposto
i pezzi ed i colori,
ma tanto è ciò che ignori,
o Ciarlatano.

Mi piace quel tuo rosa, come se avessi a mente
i ritmi della tua bocca, lo sciorinare dei violini.
Canto della tua posa al crocevia dei venti
dove le vecchie donne facevano la croce.

Lascia che volga in fiamma il bianco dei rosai
fulgido in mezzo al vento vi forgerò l’anello
della mia erranza, monile maledetto.

Ebbra di miele l’ape della giustizia
dal drappello dei re accoglierà la tua forma,
plasmata sull’Olimpo del mio cuore.

Qualcuno ha chiuso gli occhi in fondo al molo.

Forse perché la via maestra
non dava scampo
al ciglio del burrone,
feci sentieri snelli
al ragno
tra le fronde.

Il Signore del posto,
in quell’istante,
mi offrì dal fondo
di accettar l’incanto,
memoria delle fiabe.

L’urlo della cicala,
poi,
mi mise in marcia.

Dovevo pur ricominciare
quel rituale.
L’urne dei poeti
in pieno giorno,
vivono degli avanzi
della sera,
nutrite
dall’occhio di bronzo
della luna.

Quand’anche imparassi
le rotte
del vento
o le strade
del fuoco,
Ermione, dono di carta,
mi divorerebbe.

Voglio aspettare
ancora sveglio
che ritorni –
l’occhio di bronzo –
eco della sfera.

L’urne dei poeti,
in pieno giorno,
vivono degli avanzi
della sera.

Splende come d’avorio
il filo della saggezza.
La lama del sole
nei campi
recide il grano
al tuo ritorno.

Nella mia stanza, Adorno,
una Giuditta,
costola adamitica
del folle Klimt,
libera la sua stretta
e lascia il capo.

La creatura sul muro
è frutto delle visioni.

Sempre lui, quel Bugiardo,
non cessa di seguirmi.

Ti troverò, nascosta tra le brame
dell’autunno
e le incertezze
della neve,
posata sui rami gravosi
dell’inverno.

Sul mio strale consunto
tenue lavorìo di forme,
estremo lavorìo di forme
sul mio strale rinato.

Ti troverò,
le geometrie dell’inganno
filtrano le foglie
che ho strappato
al ciclo sempiterno
delle ombre.

Sul mio ricordo offuscato
s’intrecciano dorate anomalie,
oscure anomalie s’intrecciano
sul mio ricordo schiarito.

Diventa rito
la ricerca di senso.

Ogni angelo – dicono – è rivoltoso
se lascia che il bianco
delle sue vesti
si faccia terra
nell’antica scesa
verso l’umano.

Non è forse un miracolo
il chiedere perdono,
quando interni riflessi
decidono il corso
della coscienza?

Cosa ci resterebbe
del chiudere la soglia
di un solo abbraccio
in grado di salvare?

Ogni singolo pensiero
reclama ali,
angeliche,
remote.

Il mio fianco era proteso e vinto,
il tuo
declinava l’aria di novembre.

Un cane
rintoccava la tua stanza.

Era di rame e ruggine
il tuo seno.

Un cane
rintoccava la tua stanza
naufrago di misteriose
essenze.

Un cane
al buio della tua stanza.

Solo un ricordo
della tua folle danza…

Il viandante ha sonagli d’avorio
alla mia porta,

viaggia
col carro saturo di pelle
reclamando voci
ai burattini ammassati.

Il viandante porta nel sacco,
pieno sulle sue spalle,
il sacramento del fuoco,
l’estrema scelta
di restare bambini.

Il profilo dell’uomo
si assottigliò
sul muro
forato
di gesso
come a svanire.

Non basta
tendere ponti
per le fate.

I segni
con inchiostro
sanguigno
proiettano
la sorte.

Non basta
scagionare
l’attesa
col finto credo
d’una futura salvezza.

Sono stato via
per diverse esistenze,
quando il cappello
di stoffa scucito
sulla tua testa
fece ingresso
nel corridoio
sommesso
all’eco delle preghiere.

Così
mi piace immaginarti
poeta,
mentre fumi
la tua pipa bislacca
inventando giganti.

Sarò stato via
per diverse esistenze,
quando il riflesso
del tuo cappello scucito
si parerà davanti,
a ricordarmi
del mondo.

Visito spesso
il luogo
dell’artista,
gli oggetti confusi,
il giallo delle tele.

Nell’apparente
immobilità
dei pastelli
o della tavolozza
(fa lo stesso)
la sottile alchimia
degli elementi
trabocca
all’urlo delle mani.

Placido
il moto delle ciglia
del Ciarlatano,
sembra quasi
ci incanti
con l’apparente immobilità
del suo cuore.

Tu sei come me,
buio inverno,
la bianca spuma
ci inibisce. L’altrove
già sulle filiere
o sugli steccati
ci chiama a raccolta.

Le spine dei versi
che ti incido sul legno
non sono chiodi
per la crocifissura.

Un logoro volume
di Montale
dritto sulla mia soglia
reclama lettura:

Pareva facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m’era aperto, in un tedio
malcerto il certo tuo fuoco2.

Dietro il tappeto,
nulla che ci congiunga.

________________________

2 Prima strofa del componimento montaliano Pareva facile giuoco…, da Le occasioni (1928-1939).


Spaventami, se agisci
con gli scudi
della perseveranza.

Che sia il tuo passo
a ricordarmi
la misura del mondo
non mi riguarda,
Chronos,
piuttosto
se mi riguarda
qualcosa del mondo,
è la culla del vento,

spesso i poeti
lo fanno sussurrare.

Basta una bocca
a narrarci del resto.

La poesia delle maschere
ha questo d’incanto:

fa scrivere versi,
non sapendo di farlo.

Capovolgimento
di falso e natura,
di vita e artificio.

Tutto il teatro
si nutre della scena,

il mortale seduto tra i savi
vivrà assai meno
dell’infinita follia
degli attanti.

Attenti alle mosse
aeree
di fili ed ombre
i burattini
fanno gara di sogni.

Chi ha rubato
la stele matura dell’alba
all’occhio umano?

No, non il Bugiardo,
lui
è ancora sulla scena.

Percorre il sangue
le vie della terra
e irrora il volto
di luminare
in fondo ai vetri sporchi.

Il turgido seno del monte,
il declivio sfumato
dai colori del golfo,
il faro
che non attira più navi,
quegli ignavi guastatori del Sogno
mi ingoiano
ridendo
del loro gesto furioso.

Il fuoco del pastore,
intanto,
mi riconsegna alla terra.

Sciocco metabolismo
di geometrie giocose.

Forse del vanto cieco delle fate,
forse del pianto gelido dell’albero,
non chiedo abbracci,
forse percorro anfratti
che non vivono d’albe o di tramonti incolti.

Corra ed inondi il Fato il luogo delle streghe,
in cima al monte storpiato
nel grembo,

io
riplasmo ogni lembo
del giglio che colsi
andando
per la strada.

I rumori improvvisi
di un gatto che avanza,
il fruscio vespertino
le foglie d’aprile,
i salici spogli

ora incalza
il bisogno di farci,
di tenere mani
nei bui d’inverno.

Le parole che scrissi
sui mandorli spogli,
i segnali sul muro
per dirti di uscire
dal tuo nascondiglio

ora avanza
il mio ardito aspettare.

Ingannami, ti prego, mi accade ancora
di pensare al sudario delle tue paure.
Il nero tremendo dell’avido inchiostro
lascia che sia raggiunto dai fantasmi.

Inventami, ti prego, mi affligge ancora
il pensiero del Bello, vezzo dell’esteta.
Il tono giallastro del cielo rimbomba
per avere più fiato.

Sono l’angelo Israfel, le corde del liuto
che suono nell’ombra le modello dal cuore.
Narrerò alla mia voce il segreto rumore
dell’eterno.

Non ti posi. No. La tua pelle
riscuote la luce stellare,

le perle
ritrovate tra mucchi di stracci
mi fanno ancora specchio del ritorno.

Tu, allora, aspetta nella sera
che giunga l’invito
a farsi carne e sangue.

Non troveranno. No. Il tuo clamore
di madre, sorella, ancella,
sposa.

Non lascerò imbrogliarmi
dall’Avaro,
né da quel diavolaccio
di Arlecchino,
bizzarro incrocio,
caciaroso e folle,
di demonio e zotico,
truffa e florilegio
di scurrilità.

Rido alla maschera
che ti diede il Tempo,
alla tua folla di zotici creatori
che risero del volto
tinto di nero e rosso
e del bernoccolo
segno della scemenza.

Che fosse scienza
il tuo ardito parlare
o vana essenza
il ghigno non celava
la tua tanto adorata fraudolenza.

Incalza vecchio scaltro
incalza pure,
le maschere gettate
dietro il podio
ti rendono bislacco,
ecco lo scacco
che ti giocò il tormento
del continuo ingannare.


Nel rumore
di ghiaccio
che sveglia
la terra,

fustigante
bellezza
del vano
sillabare.

La roccia è
confine tra la mia
cetra
e il corpo,
nella caligine.

Pronuncerò
la formula
placante
dei Navajo,
tra i sassi
scintillanti
del sentiero
divino.

Ora
la voce della Pioggia
è la mia voce3.

3 -L’espressione in corsivo proviene da un antico rito magico della popolazione navajo.


Se presso
i tuoi fuochi
si adunano gli dei,
ogni sera verrò
per nutrirti
d’ambascia.

I mocassini
nuovi
sulle scale
reclamano
memoria
in strisce
opache.

Per nutrirti
d’affanni
butterò giù
la porta,
anche se ai fuochi,
incolto Adulatore,
di dei,
Tu,
non ne hai mai avuti.

Ho invitato
gli spettri
d’Edgar Allan Poe
per farti
compagnia
nella mia assenza.

Eiros e Charmion,
i primi,
Monos e Una4,
i profondi,
siedono intanto
già nel tuo salotto.

Dovrai pur sempre
colmare un po’ te stesso
quando non ci sarai.

4-Personaggi tratti da due dei Racconti di fantascienza di Edgar Allan Poe, rispettivamente Conversazione tra Eiros e Charmion e il Colloquio di Monos e Una.

L’aeroplano di carta
che all’ombra creasti
immaginando le forme
del volo
ha scontrose dinamiche.

Solo
riflette sull’essere
un poco,
il futuro non essere.

Meglio fingersi impavidi
che cucirsi le ali.

Bevo
l’umorismo
del vecchio usuraio,
le mosse convulse
che investono
l’oracolo
del sommo inganno.

Repetitio –
ripeto –
repetitio.

È il rumore sordo
dei tuoi passi
a farsi
scansione del tempo,
mentre
strane forme
sul muro
tracciano
la consapevolezza
dell’altrove.

Le prove
affrontate
chiedendomi
di andare –
ma poi dove? –
sanno
di confusione,
continua fusione
di Amore
con Morte.


Andarsene
come si è arrivati,
all’alba
riconoscere
il bagliore nascente
e avanti,
come si è arrivati
andarsene.


Parigi,
5 del mattino,
stringo
tra le braccia
lo spazio
di gelo
autunnale,
il rumorio
dei primi tram.

Nessuno
s’accorge
che è più facile
amare
piuttosto
che vivere appena.

Nella bocca
dei falchi,
nel sapore
del vento,
nel rumore già
spento
del cosmo,
sei istante.

Vissuto
è niente
senza quel solo
istante,
nel gomitolo
rosso
posato alla finestra,
nel pendolo
adagiato
sopra la tua ginestra,

il mare
spalanca viali
di abbandono.


Non trovo
la quadratura
del mio cerchio.

Gli sbuffi
della locomotiva
rivestono di stracci
il mio Verlaine,
ricordo
delle pagine ingiallite
di vecchie antologie
sugli scaffali.

Dove andate?
Non ho ancora
finito
di ricucirvi
i bottoni.

Il tramonto divino,
il nettare dei sogni
l’apparire del giallo
semiaperto
della luna

scolorisce gli occhi.
Hai preso di me
gli affanni,
e i fiocchi
di nero egoismo,
il quadrato
del viso,
il cerchio
delle pupille.

Nella tua casa
sono
pioggia che cade.

Il tuo labbro
è riempito
di fiele,
come nel sacrificio
dell’Eletto.

La ruggine
dei chiodi
sulle mani,
lievita
le emozioni
dell’eterno.

Eterno
di legni
e trafittura.

Chi può dire
se il sole
d’inverno
porterà
insanguinati
altri passi?

Riempi
il tuo cranio
d’assenzio,
astruso
Bugiardo.

Faremo
bei versi
d’amore,
alle spalle
del mondo.

Non ho divelto
con m’ama o non m’ama
le tue margherite.

Al terzo piano
ho incontrato
la Notte
svestita,
invitante
all’amplesso.

Prima che
l’anima
diventi fiume
e il corpo
roccia,
fermerò
i giusti istanti
del continuo
mutare.


È rimasto
l’odore
del vento
sul mio petto,

il guscio
delle stagioni
tira su l’ombra
dei pini
per farsi
coperta.

La gobba
del canneto
si fa grafia
immaginaria,
punto di domanda.

È rimasto
il verticale
tragitto
dell’onda
sul mio petto.


Soglia di luce mortale
racchiusa in gheriglio
che è vento,
casa,
strale,
poeta,
giullare…

Soglia di sangue
che è luna
mescolata
al tramonto,
bruna
iraconda
gemella
di Naiade,
immonda
Metella.

Sulla pietra
più bella,
i nomi
dell’infanzia.

anch’io
t’avrei chiesto dei versi
passeggiando
per strada,
tra i vicoli
persi
avrei chiesto
alla vita
di truccarsi
le gote.

No, la redingote
del Folle
non si può
barattare!

Vieni
Progne
bambina,
a chiudere
i miei versi.

La rondine
e la brina
si consigliano
intanto
nel contendersi
il posto.

Lascio
carte
ingiallite
con le mani
distratte
dal fuoco.

Dal candido
gioco
delle raganelle
scaturisce
il tuo volo
intrepida Poesia.

Portami il girasole
che un giorno
donasti
al terreno riarso
del saggio Montale.

Cresce la fissità
il mobile lamento
dallo specchio
del cielo.

Portami il fiore giallo,
senza velo,
ch’io lo nasconda
al truce passeggero;

portami il girasole
che all’Inferno
conduce5.


5 Poesia modellata sul componimento montaliano Portami il girasole ch’io lo trapianti, tratto dalla raccolta Ossi di seppia (1925).